Il gioco, un piacere da coltivare tutta la vita

Scritto da Paolo Ferrario il 20-06-2011

D’estate i tempi della vita quotidiana si dilatano, accrescendo le occasioni per intensificare le relazioni familiari e quelle con gli amici. È anche il momento per riattivare quell’attività antica e contemporaneamente moderna che è il gioco. In questo articolo esploriamo il vasto campo socioculturale dentro il quale si inscrive l’atto del ” giocare” con l’intenzione di vederne gli effetti sulla creatività individuale.
I giochi sono moltissimi. Giampaolo Dossena (1930-2009) gli ha dedicato ricerche fondamentali, che diventano anche occasione di memoria storica: Giochi da tavolo, Giochi di carte italiani, Solitari con le carte, tutti pubblicati negli Oscar Mondadori.
Roger Callois
(1913-1978) nel suo basilare I giochi e gli uomini (1967) definisce il gioco come “un’attività libera e volontaria, fonte di gioia e divertimento… scrupolosamente isolata dal resto della esistenza e svolta entro precisi limiti di tempo e di luogo” e ne distingue quattro categorie.
Ci sarebbero innanzitutto i giochi basati sul caso (Alea),
poi verrebbero i giochi competitivi (Agon),
quindi i giochi di vertigine, come i girotondi e i divertimenti da Luna Park (Ilinx) e infine quelli basati sulla imitazione (Mimecry).
Nonostante questa infinita varietà, la parola ” gioco” si riallaccia sempre alle dimensioni dello svago, della distensione, del divertimento, ma anche a quelle del rischio o della destrezza.
Eppure, se allarghiamo lo sguardo alla storia sociale, ci accorgiamo subito che esso non è confinato solamente agli aspetti privati della nostra esistenza.
Lo studioso Johan Huizinga (1872-1945),
nel classico libro Homo ludens del 1939, considera il gioco uno degli elementi fondamentali della nostra vita che influenza il linguaggio, il mito, i culti, e le varie sfere del vivere moderno, come la giustizia, il commercio e l’industria, l’artigianato e l’arte, la poesia, la filosofia e la scienza. Huizinga definisce il gioco nel modo seguente: “un’azione, o una occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere diversi dalla vita ordinaria”.
In questa ricognizione è necessario ricordare che anche la scienza politica utilizza il gioco per identificare le dinamiche cruciali delle situazioni per coglierne la loro specifica razionalità a partire dalle preferenze, aspettative, risorse e mosse degli “attori/giocatori”.
In questo quadro, secondo Gian Enrico Rusconi, “un gioco è la mappa del percorso di decisori sociali e politici in situazioni di interdipendenza”. Nelle organizzazioni i comportamenti degli individui dipendono spesso dalle aspettative che essi hanno riguardo al comportamento degli altri: il rispetto delle scadenze, i livelli di impegno da esercitare nei compiti l’adeguamento alle norme sono spesso decisi in funzione del comportamento tenuto dagli altri membri.
Sono questi i motivi per cui si è affermata la cosiddetta teoria dei giochi basata sull’analisi delle decisioni strategiche che ciascuno adotta in rapporto alle scelte di tutti gli altri. L’esempio paradigmatico di gioco inteso come situazione strategica per eccellenza è quello degli scacchi, nel quale per vincere non conta la fortuna, bensì l’abilità di scegliere le mosse giuste in relazione alle mosse più probabili dell’avversario.
Una delle sfere dell’attività umana con cui il gioco si connette più profondamente è quella della creazione artistica. Un’opera teatrale, un film o un romanzo sono creazioni che appartengono al nostro sistema di realtà (le vediamo sul palcoscenico, sul telone cinematografico o sulla pagina del libro) e che, nello stesso tempo, non sono reali poiché si costruiscono come mondi di finzione diversi e altri rispetto a quelli in cui viviamo.
Il legame fra l’arte e di gioco si manifesta anche a livello linguistico. Alcune lingue europee esprimono con gli stessi termini (inglese Play e to Play, francese Jeu e Jouer; tedesco Spiel e Spielen) sia il gioco e l’atto del giocare, sia l’azione artistica: “giocare”, quindi, ma anche “recitare”, “suonare”.
Nel Gioco delle perle di vetro (1943) Hermann Hesse sostiene come l'”irreale”, ossia il gioco come attività razionalmente creativa, possa convivere con il “reale”. Il suo personaggio Josef Knecht, dopo essersi applicato con slancio e passione al gioco delle perle dalla fanciullezza alla maturità e dopo essere arrivato a ricoprire le cariche più alte, infine abbandona il gioco e lascia Castalia per entrare nella più concreta vita sociale.
Anche importanti filoni della psicologia evolutiva hanno messo il gioco al centro della loro attenzione. Nell’infanzia esso è un’attività basilare per svelare e conoscere la separazione fra sé e il mondo (Winnicott, Bruner),
per la costruzione della soggettività individuale (Piaget, Freud),
per sperimentare la differenziazione dei ruoli (Duncan).
Nel suo modello dinamico a tre stadi legati alle età della vita, Jean Piaget elabora una pratica pedagogica dell’insegnamento. Nella prima fase, il gioco è un esercizio che deve essere ripetuto per puro piacere. In seguito, i giochi di ruolo permettono al bambino l’apprendimento di specifici modelli comportamentali. Infine, nella terza fase (il gioco con le regole),
il bambino impara comportamenti sociali adeguati alle situazioni.
Come si intuisce da questa necessariamente rapida ricostruzione, il reticolo dei significati del gioco è veramente ampio. È possibile cercare qualche elemento comune in tutte queste esperienze?
Lo studioso di comunicazione e linguaggio Ugo Volli suggerisce un percorso molto suggestivo, proprio a partire dalle parole. Talvolta diciamo che un meccanismo (ad esempio un bullone con il suo dado) “ha gioco”, perché è libero di muoversi almeno un po’. In riferimento a questa situazione, il gioco sarebbe dunque “un certo ambito di libertà, uno spazio separato in cui non si è più costretti a una posizione precisa”. Il gioco allora rimanda alla libertà di cambiare all’interno dei continui cambiamenti imposti dai tempi in cui viviamo.
In un’epoca come la nostra, in cui tutto sembra diventare un’incontrollabile e imprevedibile mescolanza di “caso e caos”, il gioco insegnerebbe che l’imprevedibilità non è solo angosciosa purché riusciamo a intravedere le possibilità dentro i vincoli che ci sono assegnati.
A questa conclusione, più che mai attuale, era già arrivato trent’anni fa il matematico pedagogista Lucio Lombardo Radice (1916-1982) nello straordinario libro Il giocattolo più grande: tante proposte aguzzaingegno. Alla fine di una strepitosa rassegna di giochi, l’autore scandisce un mirabile “elogio del gioco” che meriterebbe di essere appeso in ogni casa in cui vivono bambini, persone adulte e persone anziane che stanno in relazione fra loro.
Dopo avere indicato nel consumismo, nella passività e nella non – partecipazione il fenomeno che corrode la nostra civiltà occidentale invita a reagire, a recuperare la creatività, la gioia di inventare, il gusto di ” suonare (male),
di dipingere (peggio),
di recitare (da cani),
di fare film (pessimi),
ma di suonare, dipingere, recitare, fare film NOI”. Su questo sfondo il libro illustra, spiega giochi da fare con il “giocattolo più grande “, cioè con il cervello. I mimi che devono suggerire a gesti il titolo di un film, o presentare le sciarade figurate, le gare di versi su temi e schemi obbligati, l’invenzione di ideogrammi, il gioco dello spelling.
Più in generale, Lucio Lombardo Radice avvertiva e avverte che imparare a giocare stabilendo che rispettando regole oneste crea l’abitudine alla convivenza civile.

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