La "Metamorfosi di Kafka", che paura cambiare
Scritto da Stannah il 23-02-2009
Nei post di questo mese abbiamo incontrato diversi esempi di metamorfosi: per qualcuno, mutare è stato doloroso; qualcun altro, invece, ha affermato con convinzione di non mascherarsi mai, almeno nella vita di tutti i giorni. In tutti i casi visti finora, comunque, il cambiamento si è tradotto in un risultato positivo.
C’è invece un esempio letterario immortale che va in ben altra direzione. Sto parlando de “La metamorfosi” di Franz Kafka che narra della trasformazione di Gregor Samsa, affidabile ed efficiente commesso viaggiatore, in un gigantesco scarafaggio.
Molti ricorderanno l’incipit: “Una mattina, svegliandosi da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò nel suo letto trasformato in un insetto mostruoso“. Parole così dirette non lasciano spazio a dubbi: la vita del protagonista ha subito una svolta eclatante, tutto sta a capire come influirà sul suo futuro.
Non voglio rivelare il finale perché tra i frequentatori di “Muoversi insieme” ci sarà sicuramente qualcuno che non ha letto il racconto del celebre scrittore praghese.
Voglio però condividere con voi la riflessione che mi ha suscitato.
Nella vita i cambiamenti arrivano comunque, che li vogliamo o no. A volte potrebbero causarci turbamenti o guai più seri, in altre circostanze ci rallegrano restituendoci nuova energia.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, l’interpretazione in positivo o negativo di un evento che ci è accaduto è tutto nella nostra testa e nella nostra visione del mondo.
Insomma, molte volte i nostri drammi (o i nostri successi) dipendono da come vediamo il famoso bicchiere, se mezzo pieno o mezzo vuoto.
Chi tende alla seconda ipotesi, in genere, non ama i cambiamenti: se potesse, se ne starebbe al caldo sotto le coperte e si riaddormenterebbe quando suona la sveglia.
La vita, però, non aspetta, ed è per questo che a volte si perde il sonno prima di un appuntamento amoroso, di un colloquio di lavoro, di una gara sportiva.
Così è facile ipotizzare che Kafka, creatura sensibilissima, dovesse esorcizzare con la sua scrittura onirica le ansie e le angosce quotidiane. Certo, nelle motivazioni estetiche di un artista del suo livello ci sarà stato molto altro (come testimonia un recente dibattito tra gli scrittori Abraham Yehoshua, Amos Oz e Roberto Calasso alla Fiera internazionale del libro di Gerusalemme),
ed egoisticamente noi lettori non possiamo che essere contenti se qualche incubo, rendendolo insonne, l’abbia spinto a scrivere.
Però quando uno scritto ci colpisce, viene naturale soffermarsi a considerare l’umanità di chi l’ha prodotto: sembra quasi di ritrovarvi una parte di noi.
Negli ultimi tempi si è parlato sui media dei benefici della scrittura terapeutica: se si ha un problema, dicono alcuni studiosi, meglio buttarlo giù sulla tradizionale carta o battendo sulla tastiera di un pc.
Può darsi che questi studiosi abbiano ragione, però, come per tutte le cose, non bisogna forzarsi.
Ognuno ha la sua maniera per adattarsi al cambiamento e non esiste una ricetta corale.
Per esempio, rileggere “La metamorfosi” di Kafka su di me è stato utile (terapeutico non so): l’animo umano è grande, ho pensato, non dobbiamo aver paura dei nostri fantasmi, ho aggiunto, se abbiamo paura siamo vivi e la vita è un dono magnifico, ho concluso.
Voi che ne dite?
Buone metamorfosi, amici.